lunedì 16 settembre 2019

IT - Capitolo 2 (2019)


it capitolo 2, recensioneSe fossi una bestemmiatrice, le prime 5 righe di questo post non sarebbero altro che la trascrizione di uno dei video della nuova era di Diprè. E nonostante non abbia voglia di infilare 5 righe di porconi, affermo che sarebbero il modo migliore per descrivere il sentimento derivante dall’aver quasi sprecato tre ore della mia vita. Per fortuna avevamo il 2x1 del McDonald’s, così almeno l’esborso economico è stato contenuto…
Ma procediamo con ordine, e addentriamoci insieme in quella che è stata una visione partita bene, attraversata da sgomento diffuso e finita in vacca.
It 2 (lo chiamerò così per brevità) ha dalla sua un’estetica pazzesca, e su questo non si può dire niente. Facile quindi che, appena le luci del cinema si spengono e il film parte, si venga catturati completamente da quel mondo horror ma patinato e magari ci si metta un po’ a nasare la boiata. Anche perché non arriva mica subito!
Il film si apre con uno scorcio sulla Derry odierna, in particolare durante una fiera di paese. C’è Xavier Dolan, e questo può farvi sorridere se seguite Il Cinefilo dell’Internèt, e ovviamente fa la parte di un omosessuale. Il ragazzo e il suo compagno sono subito vittime di un violento pestaggio proprio a causa del loro orientamento sessuale (spoiler: è la cosa più paurosa che vedrete) e, dopo che il povero Adrian viene scaricato nel fiume dai suoi aguzzini, si palesa Pennywise a concludere il lavoro. Immagino che questo fosse un accenno alla retorica di fondo per cui i veri mostri siamo noi umani e la nostra negatività; o forse voleva dirci che il clown stava tornando ma non era ancora abbastanza in forze per cercare delle vittime e doveva “accontentarsi” di mangiare quelle altrui, cazzo so. 

it; chapter 2; pennysiwe; recensione
Sì ma quando arrivano 'sti cadaveri?
Fatto sta che di lì a poco arriva il momento in cui Mike, l’unico dei perdenti a essere rimasto a Derry per tutto questo tempo, capisce che i morti e gli scomparsi stanno aumentando un po’ troppo ed è ora di rovinare la vita a tutti quegli sfigati degli amici suoi.
Ne consegue un giro di telefonate più fallimentare di quando invitavo la gente al mio compleanno: chi vomita, chi non si ricorda di Mike, chi abbozza ma poi si suicida, e a parte quest’ultimo (saggio Stan, che non ha preso parte a questa pagliacciata –lol- di film) tutti tornano “a casa”. Nel cast, anche James McAvoy e Jessica Chastain: probabilmente uno aveva bisogno di fondi per pagare il mutuo e l’altra per finanziare la mamma surrogata. 

james mcavoy; it; chapter 2; recensione
La fotografia patinata che inganna

Al di là di queste facili ironie, suggerite dal senno di poi, la prima ora di film non è affatto male. Certo, nulla di nuovo per chi ha letto il libro o ha visto l’adattamento con Tim Curry: è la prevedibile panoramica di come sono diventati i losers, di come sia bello ritrovarsi, di come certi amori non finiscano mai e del perché Mike li abbia fatti tornare a Derry. C’è pure qualche comparsata di Pennywise che comincia a disturbare la quiete ma tutto si svolge nei confini della piacevolezza. È quasi come se avessero deciso di suddividere la parte non trash da tutto il resto: daje regà, facciamo la pausa bagno e preparatevi perché poi si ride.

Sembra "Up" ma non è
Le primissime avvisaglie arrivano quando entra in scena Henry Bowers, il vecchio bullo assassino internato in manicomio dopo essere impazzito per aver visto It. Fortunatamente la sua durata nel film è davvero breve, e dico fortunatamente perché accompagna alcune delle scene più ridicole del lungometraggio. Tanto per cominciare, va a recuperarlo dall’ospedale psichiatrico uno dei suoi vecchi compagni, quello che nella prima parte era morto nelle fogne. Esatto, va a recuperarlo in versione zombie, guidando la macchina e ammiccando alla telecamera; successivamente Henry si introduce nell’hotel dove alloggiano i perdenti, e mentre Eddie è in bagno, sbuca dalla doccia e gli pianta il pugnale nella guancia. Ma come, hanno stravolto la trama? Eddie moriva così presto nella storia? Certo che no, non solo Eddie non morirà, ma tratterà la propria ferita IN MEZZO ALLA FACCIA nello stesso modo con cui i bambini affrontano le ginocchia che si sbucciano cadendo dalla bici: fa battute, chiede a Bowers “perché l’hai fatto?” (ma come, ha tentato di uccidervi per tutta l’infanzia…) e non dà segno di provare alcun dolore, ma nemmeno fastidio. Starà poi agli amici medicarlo in maniera ridicola e mandarlo in giro per il resto del film con in faccia la stessa pezzetta che ti mettono dopo un prelievo.
La noia subentra presto quando, in maniera molto telefonata, tutti e 7 i protagonisti si lanciano in un viaggio nel passato alla ricerca di un oggetto che li rappresenti, da utilizzare nel rituale inutile che faranno per sconfiggere Pennywise. Massì, fateci rivedere metà della Parte 1, tanto mica durava abbastanza ‘sto film… e sì, metteteci anche una quantità indegna di battutine, gag e siparietti che allentino quel po’ di tensione che siete riusciti a creare tra uno jumpscare e l’altro, non sia mai che pensassimo si trattasse di un horror serio, tratto da uno dei romanzi simbolo di Stephen King.
Ma a proposito di Stephen King… il Re è noto per non essere mai stato tenero con le trasposizioni cinematografiche delle sue opere, tanto da essere riuscito ad aver da ridire anche su quel capolavorone di Shining by Kubrick. Quindi ora voglio che mi spieghi quali sono gli elementi che in questo caso l’hanno convinto a tal punto da fare un piccolo cameo, in uno dei pochi frangenti ironici che non stonavano troppo (forse perché eravamo ancora solo a 5 su 100). L’età l’avrà intenerito? Debiti pressanti anche per lui? Scarso gusto per il cinema? (A vedere i film diretti da lui propendo per quest’ultima opzione).
A questo punto seguono due ore buone di momenti altamente ridicoli e che uccidono letteralmente quel po’ di inquietudine rimasta: i perdenti che trovano la testa zombificata di Stan in un frigo e reagiscono con “Oh, è Stan” (fuck you Richie), Eddie che muore e, poco prima di esalare l’ultimo respiro, confida a Richie che “mi sono fatto tua madre” (ma PDDDDDD!!!), un flashback di una Beverly tarocca che sfotte Ben e lo insegue coi capelli infuocati, somigliando all’Ade del cartone Hercules.

it; pennywise; chapter 2; recensione
Paurissima

Direi che a questo punto si poteva pretendere almeno un finalone coi fiocchi, dopo tanta sopportazione.
NOPE!
Dev’essere successo mentre ero praticamente distesa sulle poltroncine per la noia, ma in qualche modo i 7 nani hanno capito che l’unico modo per sconfiggere It, che si era già fatto beffe del loro fallimentare rito rubato ai nativi americani, era quello di farlo sentire piccolo. Insomma, di smettere di dargli importanza, applicare un trucco psicologico per non averne più paura. Wow, figata! C’è pure l’insegnamento, la morale… tutto bello finché i losers non si mettono a insultare Pennywise, nel vero senso della parola.
Lo accerchiano e gli urlano gravi offese quali “Stupido bullo!” (forse neanche negli anni 30 poteva essere considerato un vero insulto), “Clown di merda” e altre amenità molto incisive del genere. E lui ci crede! Si rimpicciolisce davvero! Diventa seriamente vulnerabile! 
Ora, io capisco che il senso dovesse essere probabilmente un loro tornare bambini e affrontare finalmente ciò che li ha terrorizzati in maniera così indelebile durante l’infanzia. Quindi, anche se parlano coi loro corpi adulti, in realtà è il loro spirito di 27 anni prima che si esprime: la scelta degli epiteti ingenuotti lo dimostra.
Però ecco, la messa in scena fa pena. Bisognerà mettersi in testa che non tutto quello che su carta funziona può funzionare anche sul grande schermo; almeno non in questo modo; non vedendo McAvoy che aggrotta le sopracciglia e insulta un pagliaccio fatto per metà di CGI e per metà dell’occhio strabico di Skarsgard (la cosa più notevole che lasciano emergere di Pennywise in queste 3 ore).
In tutta questa cagata non manca ovviamente il romanticismo, e ce n’è per tutti: Ben che, dopo essere stato quasi friendzonato per la seconda volta, corona il suo sogno romantico con Beverly, Bill che ha una scappatella ma poi resiste e rimane il bravo marito, Richie che amava segretamente Eddie. Giusto perché, tra apertura e chiusura, tra 20 anni chi guarderà il film potrà dargli a colpo sicuro una cronologia e dire “ah sì, quello era il periodo in cui iniziavano a fare sul serio coi diritti LGBT!”.
E Stan? Mica vorremo lasciare che faccia la parte del vigliacco, del debole, di quello che non ha avuto il coraggio di tornare ad affrontare i vecchi demoni? Certo che no: a fine avventura tutti loro ricevono una lettera scritta dall’amico giusto prima di suicidarsi che in pratica aveva già previsto tutto e si complimenta con gli amici e fa il pippone motivazionale tipico degli americani.

it; chapter 2; plot twist
Questo sì che sarebbe stato un bel colpo di scena!

A dimostrazione del fatto che la gente, mediamente, non capisce un cazzo, non è volata una mosca in sala per tutte le 3 ore di questo scempio.

domenica 18 febbraio 2018

Her (2013)


her; joaquin phoenix; film; recensione; lei
Che palle!
Anzi, lo ridico meglio: CHE PALLE!
Basterebbero queste due semplici parole a recensire “Her”, anche perché non ho molto altro da dire. Si tratta quasi di una “recensione di film che non ho visto” dato che arrivare alla fine è stata un’esperienza ardua e ricca di distrazioni.
Io su “Her” avevo un sacco di aspettative, tra di noi poteva funzionare. Era tutto al posto giusto. Amo Joaquin Phoenix, amo Scarlett Johansson, amo Amy Adams e se me lo chiedete voglio molto bene anche a Rooney Mara e Olivia Wilde. E poi le tematiche: isolamento, malessere, tecnologia preponderante.
Insomma non c’era motivo per cui non dovesse andare alla grande. E invece niente. È stato come quando i tuoi amici insistono a presentarti quel ragazzo con cui hai un sacco di cose in comune, è bravo, non ha mai ucciso nessuno, non ha mai rapinato banche, non è neanche troppo brutto e però niente, se non scatta non scatta.
Tra me e “Her” è andata così, eppure ci abbiamo provato eh!
Il mio primo tentativo di guardare questo film si è svolto qualche mese fa, concludendosi con un clamoroso crollo davanti alla tv.

Ieri sera sono tornata sul luogo del delitto, più motivata che mai: mettere su un film col preciso intento di stare male e piangere tutte le mie lacrime man mano che la vita di Theodore va a catafascio. E niente, mi addormento di nuovo dopo mezz’ora, risvegliata solo dai gemiti di godimento di Samantha. Beh, mica male per essere una relazione uomo-computer!
E va bene, mi dico, sarò stata stanca anche stavolta.
Poi l’illuminazione: dovete sapere che sono un’avida consumatrice di video ASMR, un’abitudine per la quale la maggior parte della gente che mi conosce mi considera pazza (cioè, non solo per questo, ma anche) e che consiste nel rilassarsi, e di conseguenza addormentarsi, grazie a video nei quali le persone sussurrano, parlano dolcemente, fanno movimenti calmi eccetera. Quindi, non è che sto film, in cui per la maggior parte del tempo vediamo Joaquin che va in giro da solo accompagnato dalla voce soave di Scarlett, mi provoca un involontario effetto ASMR?
Forse: e allora ci riprovo una terza volta, questa volta di pomeriggio, con la luce accesa e nessun motivo per abbandonarmi tra le braccia di Morfeo.

joaquin phoenix; her; lei; scarlett johansson
Che mestizia
Purtroppo, anche da sveglia, arrivare in fondo è stata un’agonia. 
Quello che mi è rimasto di “Her” è solo la trama, gli avvenimenti meccanici, ma zero emozione. Zero senso di smarrimento, zero malinconia per uno che si innamora del proprio sistema operativo.
In pratica si riassume così: uomo separato ma ancora innamorato della ex moglie intraprende una relazione col proprio computer; il computer, per rispettare meglio lo stereotipo della donna, è gelosissimo, si sente in difetto perché non ha un corpo, è pronto a tutto per tenersi l’uomo che ama; quando finalmente lui è innamorato al 100%, è il computer-donna ad abbandonarlo, perché oltre a parlare con lui parlava con altri 8500 uomini ed era innamorata di altri 641 (o cifra simile).
Sul finale, tentativo di riflessione sulla sostanziale inutilità della monogamia, che l’amore si moltiplica e non si divide, che posso essere tua ma anche di altri. Concetti con cui sono per altro d’accordissimo però dai… me li butti lì in 5 minuti, senza un approfondimento, una conseguenza, una crescita nei personaggi?

olivia wilde; her; lei; scarlett johansson
Ehi, non è che mi scopi e poi non mi chiami più? - Ma vallààààà

Theodore sceglie alla fine la strada più sicura: mettersi con una donna in carne ed ossa, che è sua-e-solo-sua, vecchio flirt sfociato in amicizia, quelle cose banali di quando ti accorgi che la persona giusta per te è sempre stata davanti ai tuoi occhi ma non la vedevi proprio perché era lì.
La mia strada più sicura, la prossima volta, sarà scegliere meglio il film da guardare, e non farmi travolgere e fregare dall’entusiasmo generale.
“Her” purtroppo è uno di quei film di cui non si vorrebbe mai parlare male per non sembrare ignoranti, per non far sembrare che sei tu a non averlo capito, perché ha tutte le carte in regola per essere un bel film drammatico, riflessivo, che tocca temi importanti, intellettuale.
Però penso di essermi suzzata abbastanza film distopici, fantascientifici, sul rapporto uomo-macchina e uomo-tecnologia per poter dire che questo preciso film mi ha fatto due palle così.
Il suo problema principale è che gli elementi sono distribuiti male. Posso accettare che un film sia lento fino all’inverosimile se ogni secondo è pregno di emozione, di pathos, dramma, se mi trasmette qualcosa. Posso accettare una trama non così originale (il finale in cui è l’OS a scaricare l’uomo era te-le-fo-na-tis-si-mo) se la caratterizzazione dei personaggi è intensa e mi permette di identificarmi, oppure se la pellicola ha un buon ritmo e mi intrattiene.
Quello che non posso accettare da “Her”, finito l’incanto di un’estetica bellissima, è che sia lento, che si regga su una trama non così originale, tramite la quale l’emozione arriva e non arriva e, infine, che i dialoghi siano pochi e per la maggior parte banali. Ma non quel tipo di banale che permette di immergersi nella vita quotidiana dei personaggi (quante banalità diciamo ogni giorno?) ma che rimane semplicemente qualcosa di irrilevante.
Cosa mi ha dato questo film? Niente, ma forse me lo riciclo per quando non riesco a dormire.
E da insonne cronica è un super complimentone!  

domenica 11 dicembre 2016

Immortal Ad Vitam (2004)

immortal ad vitam, recensione, enki bilal
Ovvero: perché se sei un fumettista dovresti limitarti a fare il fumettista e non i film.
Scherzo, in realtà non credo tantissimo in questa affermazione, anche perché ci sono un sacco di registi che fanno solo i registi eppure non gli riesce bene, ma in questo caso il buon Enki Bilal non ha portato a termine la missione: trasferire sul grande schermo le sue stesse graphic novel.
Infatti l’aspetto particolarmente tragicomico è che, guardando Immortal Ad Vitam, mi sono detta: “È come se avessero dell’ottimo materiale per le mani ma non sapessero come gestirlo!” e, voglio dire, scoprire che il materiale era proprio opera di chi non ha saputo gestirlo bene fa abbastanza ridere!

Per altro io non so se questo film e le mille sottotrame che non portano a nulla possano essere capiti solo da chi ha letto i fumetti ma non me frega niente: se fai un film devi porre lo spettatore nelle condizioni di capirlo, oppure all’inizio ci metti un disclaimer grande come una casa con scritto “NON GUARDARE SE NON CONOSCI IL FUMETTO PERCHÉ NON CI CAPIRAI NIENTE” così almeno lo so e metto su qualcos’altro.

Cercherò dunque di spiegarvi in maniera più lineare possibile una trama che non è lineare neanche un po’.

Siamo a New York nel 2090equalcosa, in una società ultrafuturistica con le macchine che volano e il solito cartellone pubblicitario con le geishe, che dopo Blade Runner se non c’è un cartellone pubblicitario con la geisha non è fantascienza.
Qui vivono più o meno pacificamente umani, non umani e mutanti.
La protagonista è Jill, mutante interpretata da una bellissima Linda Hardy che coi capelli blu e un look cyberpunk sta da dio, ma a quanto pare i registi francesi amano prendere personaggi la cui immagine da sola ti farebbe tutto il film e trasformarli in boiate (ogni riferimento a Il Quinto Elemento è volutissimo).

recensione immortal ad vitam, linda hardy
Per dire, prometteva benissimo

Nel cielo di New York si posiziona una piramide e ci viene spiegato che Horus è stato punito per non si sa quale malefatta e gli rimangono 7 giorni per sistemare le sue faccende dopodiché dovrà rinunciare all’immortalità.

Ok, fin qui ci siamo, abbiamo gettato le basi. La teoria degli egizi-alieni mi affascina sempre quindi sono positiva.
Torniamo a Jill, perché è intorno a lei che si intrecciano gran parte degli avvenimenti, molti dei quali non vengono mai chiariti.
La prima volta che la vediamo è assieme ad un gruppo di mutanti che sono stati arrestati (o rapiti? Boh) dalla Eugenetics Corporation, una lobby farmaceutica e amorale che vuole… no, non si sa cosa vuole, di conseguenza non si sa neanche perché venga contestata e perché abbiano arrestato Jill. Che poi arrestato… le case farmaceutiche arrestano la gente? Non lo so, forse nel futuro sì, fatto sta che prendono la nostra protagonista dalla chioma celeste e la affidano alle cure della dottoressa Elma Turner, ovvero Charlotte Rampling con un’improbabile pettinatura vinilica che su un volto così iconico ci sta come i cavoli a merenda.
La dottoressa esamina Jill e scopre che ha l’anatomia di una persona di 3 mesi, si affeziona a lei, nel corso del film la seguirà e la proteggerà ma non si saprà mai il perché. Si è innamorata? Si è affezionata? In realtà è viscida e ha uno scopo segreto? Boh! Preparatevi perché di “boh” ne leggerete parecchi…

Immortal ad vitam, charlotte rampling, recensione
Ma si può?
Jill è particolarmente legata a John, un uomo con la faccia coperta di stracci che le fornisce delle pilloline blu le quali le cancellano continuamente la memoria rendendola sempre più umana. A fine film John le darà una pillolina rossa (ciaoooooo Matrix!) che la trasformerà definitivamente in una donna resettando ogni ricordo di quanto accaduto fino a quel momento. Sì ok, ma chi è John? Che gli frega a John di trasformarla in un’umana? Perché lei dice di amare John? Perché se uno entra in una certa stanza indossando la tuta da astronauta può trovare John che galleggia nello spazio? Boh!

In un film di questo genere non può mancare la deriva politica: qui abbiamo Kyle Allgood, un politico che però forse possiede anche la Eugenetics (ecco perché le case farmaceutiche arrestano la gente!) che deve negoziare con la piramide perché è convinto che sia lì per mandare a monte la sua carriera diplomatica. Boh! Contestualmente assegna all’ispettore Froebe il compito di indagare su una serie di omicidi e poi, ovviamente, di trovare Jill. Perché? Forse per quel famoso arresto? Boh!

Oh io non lo so se ad alcune di queste domande il film dia una risposta, magari ho avuto dei microsonni e me le sono perse, ma sono abbastanza sicura di no perché, se devo dire qualcosa in difesa di Immortal Ad Vitam, posso affermare che non annoia. Il problema è che succedono cose ma non si sa il motivo e fin dall’inizio si ha quella sensazione che no, gli avvenimenti non confluiranno e no, tutto non assumerà un senso.

E Horus?
No cari miei, non mi sono mica dimenticata di Horus! Ho deciso di lasciarvi la parte migliore per ultima…
Horus c’ha l’ansia perché tra un po’ diventerà mortale e quindi vuole procreare a tutti i costi.
Per prima cosa assume le sembianze di un falco, scende sulla terra e si impossessa del corpo di Nikopol, un sovversivo che si trova in prigione. Durante l’”evasione” Nikopol perde una gamba, così Horus lo piglia, lo porta alla fermata della metro, stacca un pezzo di rotaia ed emettendo raggi laser dagli occhi lo modella a forma di gamba. Sìsì, c’è la scena di Horus-fabbro che trasforma una rotaia in una gamba. È stato qui che ho cominciato a perdere fiducia nella pellicola. Ora vi chiederete giustamente voi, sei Horus e non puoi creare un arto umano dal nulla? Certo che potrebbe, ma non lo fa in modo da costringere Nikopol a eseguire i suoi ordini, poiché il poraccio da solo non riuscirebbe a camminare trascinando un quintale di lamiera.
Servendosi dell’avvenente rivoluzionario Horus vuole fecondare chi?? Ma Jill ovviamente!
Lei, che non lo sa, è una delle poche donne presenti sulla terra ad avere il potere di procreare con gli dei. Dopo averla abbordata, complice il carisma e la forza bruta da divinità, Horus\Nikopol ha con lei una notte di rapporti non del tutto consenzienti ed è qui che Enki Bilal ci fa capire che ha scritto la sceneggiatura per combattere un attacco di stitichezza.
Immaginate il quadro: Horus e Nikopol stravaccati sul letto con le mani dietro la testa in classica posizione post-sesso e l’umano che accusa la divinità di avergli fatto commettere uno stupro, con tanto di didascalico: “Tu pensi che le persone siano tue e di poterci fare quel che vuoi”. Sì, le femministe ringraziano, gli appassionati di cinema un po’ meno. La lite continua finché Horus, per far capire chi comanda, fa volare Nikopol contro il muro e questi risponde con “Horus, sei uno stronzo”.
Penso che quella sia la frase con cui Bilal si è finalmente liberato.
Da qui in poi l’argomento assume una connotazione trash-comica, con conversazioni tra Jill e Nikopol del tipo: “Ehi, ma lo stupratore che è dentro di te sta ascoltando la nostra conversazione?” BOH!

immortal ad vitam, recensione
Ordinari battibecchi
Last but not least, ogni tanto vediamo all’interno della piramide il dio Anubi e la dea Bastet che aspettano la fine di Horus giocando a Monopoli o a scacchi, da cui cito la frase topica: “Barando o non barando, Anubi?”
Ma barando de che?
Nota di merito per l’ignoranza con cui sono stati realizzati i corpi delle divinità: Anubi palestrato e una Bastet dal fisico degno di una modella di Victoria’s Secret. Ora, va bene che è la dea-gatto e i felini sono solitamente associati alla sensualità, ma dubito fortemente che gli antichi egizi avessero dei canoni di bellezza simili a quelli odierni. Ma forse il buon Enki ha mal interpretato il modo di dire “quell’attrice ha un corpo divino!”.  

Comunque tra una cosa e l’altra Horus riesce a far nascere il suo pargolo, Jill diventa umana e comincia una nuova vita, Nikopol finisce di scontare la pena e ritrova la donna. Tutto è bene quel che finisce bene.
Non ci avete capito niente? Ottimo, è come se aveste visto il film!

giovedì 8 settembre 2016

Victor - La Storia Segreta Del Dottor Frankenstein (2015)

victor la storia segreta del dottor frankenstein; daniel radcliffe; james mcavoy
“Victor: La Storia Segreta del Dottor Frankenstein” appartiene a quella schiera di filmaz sciapi che mi lascia svuotata e mi porta a chiedermi perché mi sia mai interessato il cinema. È quel tipo di film piatto e sostanzialmente inutile in grado di annullare tutto ciò che di bello si sia visto prima.
Non so perché, ma i film insulsi mi fanno questo effetto e il peggior difetto di “Victor” è proprio quello di non avere sapore. È brutto ma non eccezionalmente brutto, eppure è troppo inconcludente e noioso per poter diventare il filmetto leggero di una serata poco impegnativa.

È l’ennesimo tentativo fallimentare di fare un film su Frankenstein, ormai girato e voltato in tutte le salse con risultati poco convincenti. (Esclusi i grandi classici, ovviamente)
Ecco, questa pellicola può trovare una sua utilità diventando un monito: smettete di realizzare film su Frankenstein! 


i frankenstein, van helsing, frankenstein di mary shelley
No.
Cercherò di farla breve procedendo per punti: cosa c’è di bello in questo film?
La fotografia, le musiche, gli espedienti grafico-anatomici. Se si potesse convertire quest’opera in una serie di immagini, tipo fotoromanzo, forse si salverebbe, perché visivamente è davvero molto godibile.
Anche l’idea di raccontare la storia dal punto di vista di Igor è innovativa, ma non basta.
Cosa c’è di brutto? Beh… ho promesso che l’avrei fatta breve e io mantengo sempre le promesse!
Innanzitutto è un film troppo verboso, una specie di spiegone continuo sulle malattie, sulle intenzioni del professore, su come si crea un mostro, sul fatto che Frankenstein è ateo.
È come se scoprissimo la trama non vedendo quel che succede ma attraverso le parole dei personaggi, che non spiegano le vicende ma addirittura le anticipano! Un auto-spoiler continuo!
Battute a parte, questo continuo parlare e sviscerare i dettagli delle varie operazioni scientifiche toglie ritmo al film, lo rende pesante, lento. Questa lentezza cerca di essere stemperata da un taglio ironico-ritmato, che cozza non poco con l’atmosfera e il tema del film.
Tra l’altro, ho notato negli ultimi anni questa tendenza ad appioppare dialoghi degni di una sit-com a pellicole “in costume” e mi chiedo se sia una coincidenza o una tecnica riconosciuta o un nuovo genere.
Potrebbero chiamarlo Victorian-com. Beh, fatemi sapere.

Neanche la successione degli eventi è gestita benissimo: la prima ora e mezza è un susseguirsi di ostacoli che si frappongono tra l’allucinato dottor Frankenstein e la creazione del suo “mostro”.
Tuttavia colleghi che gli danno del pazzo, poliziotti moralisti che lo tampinano ed esperimenti mal riusciti non lo fermeranno: finalmente riesce a dare vita a questa enorme creatura, nella quale in qualche modo rivede il fratello morto e…
E niente, una volta creato ‘sto mostro, il dottore ci mette 30 secondi netti a decidere che è “cattivo” e a passare subito alla missione successiva: ucciderlo.
Sì, avete guardato un’ora e mezza di film con lui che cerca di creare il mostro e dopo mezzo minuto vuole ucciderlo.
Sì, non è niente di nuovo, lo sapevamo che la trama era questa ma si poteva rendere in maniera decisamente più accattivante e senza dare l’impressione di aver pensato: “sta per finire il film e siamo ancora qua quindi acceleriamo i tempi”.


james mcavoy, bene ma non benissimo, filmaz, recensione
Bene ma non benissimo

Uno dei temi alla base di questo lavoro è la diatriba religione-scienza: come accennato poco fa Victor Frankenstein, il medico, la scienza, è perseguitato da un poliziotto ultra religioso che vuole incastrarlo essenzialmente perché è religioso e quindi non è d’accordo con l’operato del medico, che sembra voglia sostituirsi a Dio.
Tali concetti durante il film vengono ripetuti giusto una decina di volte: d’altronde l’antagonismo tra religiosità e progresso scientifico è un tasto che non viene mai toccato e che nessuno aveva mai sentito nominare prima, quindi era giusto ribadirlo spesso.

Ah già, e Igor? Igor è pettinato come Robert Smith e lavora in un circo dove tutti lo considerano un fenomeno da baraccone per via della gobba, ma in realtà è molto intelligente e si interessa di anatomia e medicina.
Una sera il dottor Frankenstein si trova proprio al circo e viene a conoscenza del talento medico di Igor: lo salva dalla situazione e lo prende sotto la sua ala. In 3 secondi capisce che la gobba non è una gobba ma una specie di ascesso gigante e glielo toglie, dando vita ad una delle scene più ripugnanti dell’intero film. 

daniel radcliffe, james mcavoy, ascesso, gobba
Ma bleah

Capiremo in seguito che, anche se Victor dichiara sempre una certa stima per l’amico (anche questa ripetuta circa una ventina di volte), che a tratti sembra quasi amore, il suo ego smisurato lo porta comunque a considerarlo la sua prima grande “creazione”.
Al di là dell’incipit in cui la fa da padrone, Igor ha sempre l’aria stupita e sembra appena piombato sul set, con un’espressione da “Cosa ci faccio io qui?” che tutto sommato non mi sento di biasimare. 

i have no idea what i'm doing, daniel radcliffe, recensione
I have no idea what I'm doing
Per il resto ama una trapezista del circo, un dato che oltre a fornirgli l’occasione di conoscere il medico a inizio film non ha nessuna incidenza sulla trama e rimane sempre un sottofondo confuso con poche scene sporadiche giusto per poter dire che c’era anche l’elemento romantico.


Detto questo mi sento di ripetere l’appello iniziale: basta coi film su Frankenstein!

P.S. Per la stampa: basta distribuire l'aggettivo "steampunk" a qualsiasi cosa in cui compaia un ingranaggio.

lunedì 11 aprile 2016

I 13 Spettri (2001)

i 13 spettri, horror, film, fantasmi
C’è una cosa che io devo smettere di fare, che è quella di dirmi: “Beh stasera sono proprio stanca, quasi quasi mi guardo un film horror leggero e vado a dormire”. Eh sì, perché la mia concezione di film horror leggero coincide con quelli che generalmente sono film horror belli se hai 15 anni e tutto quello che vuoi vedere è sangue e gente che muore. Di solito ammantiamo questi film di ricordi, di nostalgia, di un affetto che ci permettono di trovarli piacevoli anche anni dopo. E fin qui tutto bene.

Il problema subentra quando questi film li guardiamo direttamente in età adulta, senza il bagaglio emozionale che ce li fa piacere, e abbiamo anche la presunzione di aspettarci una trama non dico realistica sennò non guarderei un horror, ma almeno credibile all’interno dell’universo “fantasmi”.

Poi è anche peggio se sull’internet leggi pareri entusiastici e vedi gente condividere le foto di quel film come se fosse una pietra miliare e senti di essere l’unica scema a non averlo visto. È chiaro che le aspettative salgono alle stelle, e non mi si può neanche biasimare troppo!

Così approfitto della prima serata utile e guardo “I 13 Spettri”.

Il film comincia e il primo attore che riconosco è Matthew Lillard, che non è certo un campione della recitazione dato che l’unica cosa che fa è strabuzzare gli occhi e stiracchiare la bocca ma con lui ho potuto giocare il fattore Simpatia grazie a “Scream”. In questa pellicola è un sensitivo che lavora per un cacciatore di fantasmi: tuttavia si imbattono in uno spirito troppo potente e il cacciatore, tale Cyrus Kriticos, muore.

i 13 spettri, matthew lillard, horror
Una tipica prova d'attore per Matthew Lillard
Cambio scena e vediamo una famigliola felice appena trasferitasi in una casa da favola: i due figli giocano complici in giardino, i genitori si dicono frasi romantiche… e sfiga vuole che scoppi un incendio e la mamma non ne esca viva.
Siamo a 15 minuti di film, abbiamo già visto uno spettro e 2 morti: la media è buona e proseguo.
A questo punto vediamo la ex famigliola felice a distanza di 6 mesi: il nervosismo è palpabile, hanno perso la mamma\moglie, la casa e tutti i soldi. Nonostante questo possono permettersi una domestica di quelle vecchio stile che vivono a casa 24\7, e già lì dovevo capire che c’era qualcosa che non quadrava.

Lo snodo della trama però è l’arrivo dell’avvocato: scopriamo che il capofamiglia è il nipote del cacciatore di fantasmi, con cui non aveva praticamente mai avuto rapporti ma il defunto ha deciso di recuperare la parentela lasciandogli tutto in eredità, in particolare una casa gigantesca. Ovviamente l’umore sale alle stelle e i 4 vanno a vedere la loro nuova abitazione, che si rivela non molto funzionale visto che le pareti sono totalmente di vetro, con strane scritte, porte invisibili e un’enorme clessidra girevole che li imprigiona sempre più nell’edificio.
Il papà lascia figlia, figlio e babysitter nell’ingresso dicendo le magiche parole
“Non muovetevi da qui” e segue l’avvocato nello studio. Naturalmente salta fuori Matthew Lillard travestito da elettricista, travestimento che durerà 2 minuti perché rivelerà subito di essere un medium e consiglierà a tutti di lasciare la casa.

Nel frattempo figlia, figlio e babysitter hanno iniziato ad esplorare la magione e con un livello di suspence pari a -100 cominciano subito a spuntare fantasmi qua e là.
Gli spiriti sono sicuramente fatti bene dal punto di vista visivo, ognuno ha una sua particolarità e grondano marciume da ogni poro, ma dal lato psicologico\personale sono stati totalmente trascurati.
L’unico tentativo di spiegare come mai ce l’abbiano tanto con chiunque gli capiti a tiro è un
“Queste persone sono morte violentemente”, ma è troppo poco.
“I 13 Spettri” arriva infatti qualche anno dopo “Il Sesto Senso” o “The Others” (tanto per citarne un paio), film che ci hanno abituati a risvolti più profondi di un fantasma arrabbiato perché sì. Lo so, lo so che è un paragone azzardato e forse fuori luogo, ma la sensazione di incompletezza rimane, e peggiorerà.

In un susseguirsi di scene velocissime che riescono lo stesso a sortire l’effetto “Noia Mortale”, succede che:
·         Scopriamo che i fantasmi si possono vedere solo con degli occhialini strategicamente sparsi in ogni stanza della casa
·         Botte su botte da parte degli spettri a chicchessia
·         La babysitter e Matthew Lillard iniziano a provare qualcosa l’uno per l’altra
·         I nostri vengono a sapere che lo zio conservava fantasmi in cantina per non si sa quale motivo
·         Tra i vari spettri c’è anche la mamma morta all’inizio, dunque capiamo che l’incendio non era affatto un incidente

A un certo punto, non so come e non so perché, i due figli vengono legati al centro della mega-clessidra e ricompare lo zio. Lo so che state pensando “Aaah sarà lui il 13esimo spettro” perché l’ho pensato anch’io, e invece no, è proprio vivo-vivo perché lo vedono anche senza occhialini.
In realtà il dottor Kriticos non è un semplice studioso di fantasmi ma ne deve catturare 13 con determinate caratteristiche per poter aprire l’Occhio Infernale. A cosa gli serva aprire l’Inferno non si sa, forse è solo curioso.

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Ecco dove l'avevo già visto!
Ecco che arriva lo spiegone per bocca dello stesso Cyrus: vuole spingere il nipote a sacrificarsi per i figli poiché gli serve l’ultimo spettro, generato dall’amore incondizionato. 
Per fortuna gli altri 12 spiriti si rivoltano contro di lui e grazie a loro si riesce a salvare capra e cavoli.

Non si salva il film in sé purtroppo, perché l’entrata della famigliola nella casa coincide con l’inizio della Noia per lo spettatore: infatti in realtà non succede niente, ci sono scene di botte a caso, comparse dei fantasmi a caso, inseguimenti a caso, per poi concludersi col finale senza senso. L’apertura dell’inferno tanto per buttarci qualcosa di esoterico che dia tridimensionalità al tutto ma che non viene motivata, così come non trova risposta la domanda: “Sì ok, ma per trovare l’ultimo spettro era necessario ripescare il nipote dimenticato, causare l’incendio, inscenare la morte e l’eredità?”

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Buh!

venerdì 25 marzo 2016

The Lobster (2015)

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Questa recensione stupisce me per prima, un po’ perché non mettevo mano a questo blog da un sacco di tempo, un po’ perché mi aspettavo che “The Lobster” mi sarebbe piaciuto, un po’ perché non mi sono resa conto di quanto non mi sia piaciuto finché non l’ho raccontato a mia mamma, trovandomi d’accordo col suo “MA CHE BOIATAAAA!”
Ero partita con le migliori intenzioni nei confronti di questo film: prima di tutto perché si può accorpare al genere “Distopia” che tanto amo e lo affronta da un punto di vista insolito, in più il cast è composto da bravi attori (Colin Farrell, Rachel Weisz, Léa Seydoux, Ben Whishaw, John C. Reilly). Non tra i miei preferiti ma di quelli che dovrebbero costitiure una sorta di garanzia (vabbè che se penso a quello che è successo con “The Counselor”...)
E insomma è Mercoledì sera, sono a casa del mio ragazzo, decidiamo di guardare un film e decidiamo per questo.
Comincia e già la fotografia è spettacolare: colori bellissimi, quasi innaturali, un’ambientazione pazzesca (l’Irlanda), inquadrature suggestive. Anche la regia si rivelerà piuttosto interessante, con dei rallenty strategici che associati alle musiche, piuttosto particolari al limite dell’inquietante, creano uno spettacolo audiovisivo che è un piacere sensoriale. Considerate poi che il regista Yorgos Lanthimos è greco, quindi offre un modo di concepire il cinema leggermente diverso da ciò a cui siamo abituati ma pur sempre facilmente fruibile anche per noi. E poi il protagonista dice che vuole venire in vacanza in Italia quindi c’è simpatia.
Veniamo però al dunque: cosa non ha funzionato? La cosa che non ho ancora menzionato, ovvero LA STORIA, che in un film non è un particolare da poco. In QUESTO film, con tutto l’ambaradan di immagini et musica che hanno messo su, una trama deboluccia avrebbe potuto facilmente essere mascherata, per una trama inconsistente il discorso però si fa più difficile.
Ho anche voluto essere buona e concedere il beneficio del dubbio, così ho fatto una breve ricerca per capire se “The Lobster” fosse tratto da qualche libro\racconto di quelli un po’ grottestchi-satirici-allegorici che è difficile trasformare in film ma pare che no, non ci sia neanche questa scusante.
Praticamente ciò che rende distopica la società di “The Lobster” è che è vietato essere single: il che, considerando che oggi (quasi) nessuno ha più voglia di sposarsi e mettere su famiglia, potrebbe apparire abbastanza distopico, però diciamocelo.. come nodo di una trama non ha un gran mordente.
Ricorda un po’ quei pensieri che si fanno da adolescenti quando si critica la gente che si fidanza a caso perché ha paura di stare da sola. Ci sta, l’avremo pensato tutti una volta o l’altra, ma è una “critica” un po’ debole su cui incentrare un intero film.

Torniamo ai nostri single: dal momento che questa condizione è inacettabile, tutti coloro che non hanno un compagno devono entrare in una sorta di clinica in cui incontreranno (si spera) l’anima gemella. Per farlo hanno un tempo limitato, che possono estendere partecipando a delle caccie interne; chi alla fine dei giorni a disposizione non avrà trovato l’altra metà della mela verrà trasformato in un animale.
Per “invogliare” gli uomini a trovare moglie, ogni giorno una cameriera entra nelle loro stanze e gli struscia il sedere contro il pacco, ovviamente senza arrivare al dunque, e a chi osa masturbarsi viene infilata la mano nel tostapane (vabbè..). Non viene invece mostrato il metodo per convincere le donne a sposarsi, e già qui c’è del sessismo e non mi sta bene.
Purtroppo fidanzarsi non è così semplice: gli ospiti della clinica infatti non possono scegliere un partner a caso tanto per salvare la pelle, ma devono avere con lui qualcosa in comune. E con “qualcosa in comune” intendo proprio “qualcosa”, il che apre la porta ad una sequela di cazzate mica da poco: per esempio, vediamo uno dei ragazzi della casa prendere a testate il comodino per farsi sanguinare il naso e riuscire a sposare una ragazza che soffre dello stesso problema (vabbè).
Credete che stia scherzando? Nossignori, è proprio così.
Dopo aver visto una fanciulla zitella venire trasformata in un pony il nostro amico Colin capisce che si fa sul serio e che è ora di sistemarsi: decide di puntare la stronza della situazione, una donna di cui si dice che non provi assolutamente niente di niente, anche se secondo me un po’ di odio sparso qua e là lo provava.
Inizia a corteggiarla e sapete quand’è che lei capisce che sono fatti per stare insieme? Quando finge di soffocarsi e lui, vecchia volpe, non la aiuta (vabbè).
Comincia la loro vita insieme e Farrell inizia a mostrare segni di affettuoso cedimento, così la Stronza mette a punto un piano per testare la sincera stronzaggine di lui.
Cioè gli fa fuori il cane. Sadicamente. E poi glielo racconta nei minimi particolari. Lui abbozza per un po’ ma alla fine non resiste, così lei vuole denunciarlo alla direttrice per aver taroccato il matrimonio e parte l’inseguimento nei corridoi della clinica.
La cameriera strusciona per qualche motivo lo aiuta, così lui tramortisce la Stronza e la porta nella camera delle trasformazioni, poi fugge.
Ecco, la cosa mi era parsa così lunga che credevo il film fosse finito lì, invece scopro che manca un’ora abbondante. Diciamo che se fosse terminato sarebbe stato un film così-così ma che poteva avere senso, almeno avrebbe avuto una storia con un inizio e una fine.
Invece no, continua con dei collegamenti di trama molto poco chiari e a me ancor meno chiari perché facevo fatica a rimanere concentrata per più di 3 minuti di fila, perciò cercherò di farla breve.
Il protagonista si trova in una foresta abitata da persone (forse) fuggite a loro volta dalla clinica, e la cameriera è una loro infiltrata (aaaah, ecco perché l’ha aiutato!).
Ben presto si scoprirà che la società ribelle applica le stesse regole della clinica (caccia compresa) ma, al contrario, qui è assolutamente vietato provare sentimenti amorosi verso qualcuno.
E qua l’allegoria maccheronica l’avrebbe capita anche un bambino: gli estremismi sono sempre brutti (che sono anche d’accordo, però dai.. buttamela lì più sottile).
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Naturalmente Colin Farrell si innamora di Rachel Weisz e i due escogitano un codice segreto per non farsi scoprire dagli altri. Per fortuna quando vanno in città devono fare finta di essere sposati, così facendo finta di fare finta pomiciano un po’, finché a casa di Léa Seydoux esagerano e lei s’incazza.


Probabilmente è qui che quest’ultima inizia a sospettare qualcosa e architetta lo scherzone gotico: siccome la cosa in comune di Colin&Rachel non era un’affinità di carattere, non erano le stesse ideologie, non era il fatto che si piacevano e basta bensì il fatto di ESSERE ENTRAMBI MIOPI (vabbè), Léa porta l’amica da un oculista con la scusa di una visita e la fa accecare. Che simpaticona! E qui il problema non è che l’amica bastarda ti abbia accecata a tradimento, ma che ora non avendo più nulla in comune con l’amato non potrete più stare insieme. Da quel momento ho spento il cervello per un po’ finché l’ho riacceso che i due sono in un locale, lui va in bagno, dirige una penna verso l’occhio e taaac! schermo nero e fine del film.
Si sarà accecato per amore? Sarà morto nel tentativo di farlo? Avrà avuto paura e sarà fuggito lasciando lì l’amata non vedente?

Chissà, decidete voi il finale che completa meglio la serie di “VABBE’” di questo film.

giovedì 5 settembre 2013

Paura E Delirio A Las Vegas (1998)

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Fino ad ora ho sempre scritto, in questo blog, di film mal riusciti, o riusciti a metà, o che non sono piaciuti a nessuno: insomma lavori su cui in fondo era anche facile fare dell'ironia.
Questa volta invece parlerò di un film decisamente meno scontato in questo ambito, anzi uno di quelli che se fermi uno per strada e gli chiedi cosa ne pensa, nel 99% dei casi ne tesserà delle gran lodi.
Questo film èèèè (rullo di tamburi)... “Paura E Delirio A Las Vegas”.

Credo che questo sia un classico caso di “suggestione di massa”: i primi che lo vedono dicono che è bello, allora quelli dopo continuano a dire che è bello, chi lo guarda successivamente ne ha sentito parlare così bene che gli piacerà di sicuro e se anche a qualcuno viene qualche dubbio lo sopprime, pensando “boh, sarò io che non ho capito niente” e si autoconvince che gli piaccia.
Il punto è che fondamentalmente non c'è niente da capire: ok, è un film di Terry Gilliam, ok ci recitano Johnny Depp e Benicio del Toro, ok parla di droga il che fa sempre tanto alternativo, ma ciò non toglie che sia un film stupido, inutile.
Non starò a fare la recensione vera e propria perché tanto è un film che conoscete tutti, mi limiterò a riportare i motivi per cui non sono riuscita ad apprezzarlo:

1 – Sfatiamo il mito: questo film NON fa ridere. Generalmente quando parlo con le persone delle mie perplessità sull'utilità di “Paura e Delirio...” mi rispondono che a loro è piaciuto perché l'hanno trovato divertente. Ora, quali sarebbero le parti divertenti? La scena in cui vanno al raduno anti-droga e si rendono conto di rispecchiare le caratteristiche citate dall'oratore? Wow. D'altronde è un film su due tossici, non me lo sarei mai aspettato... O la scena in cui Johnny Depp in preda ai fumi di non so cosa vede le persone come dinosauri? Ri-wow. O quando Gonzo fa quella telefonata assurda a Lucy per sbarazzarsi di lei? Sì ok, dice un sacco di cose senza senso ma questo non significa per forza che sia divertente. Il fatto è che se volete sentire storie di fattoni che fanno cose stupide vi basta entrare in una discoteca qualsiasi e parlare con qualcuno, di solito è sempre pieno di gente che non vede l'ora di raccontare le proprie prodezze di quando si sono ubriacati o si sono calati qualcosa.

2 - La famosissima bestemmia: come tutti sappiamo generalmente nei film si possono trovare parolacce a profusione, ma le bestemmie sono una rarità e sono pochissimi i film in cui compaiono.
Anche qui però vale lo stesso discorso di cui sopra: se volete sentire una bestemmia vi basta uscire di casa e parlare con qualcuno, non c'è bisogno di sciropparsi questo film. Che poi anche se fosse, non è che una frase possa reggere un intero lungometraggio, oltre al fatto che ormai le blasfemie sono state talmente sdoganate che non fanno più effetto a nessuno.

3- Johnny Depp: già, qui nemmeno Johnny Depp mi ha convinto. E non perché siano riusciti a farlo sembrare orrendo, ma perché “recita” in un modo a dir poco irritante. Tutto quello che fa è sollevare le sopracciglia, socchiudere gli occhi e abbassare la bocca, probabilmente è la sua faccia buffa standard. Ho notato comunque che di solito fa quel tipo di espressione quando non è molto convinto di un personaggio e non si impegna a recitare bene... dillo Johnny che sto film faceva pena anche a te :D

4- La voce narrante fuori campo: la voce narrante fuori campo che naturalmente racconta gli avvenimenti in modo super figo da vero ganzo. Mi irrita e mi distrae. Tu ti guardi il film e sopra c'è sta voce che parla, quasi sempre in modo iper veloce che non riesci a concentrati su quello che dice ma allo stesso tempo ti distrae da quello che vedi. Per fortuna ogni tanto non parlava.

5- La droga: ebbene qui lo dico e qui lo confermo, a me dei film incentrati sulla droga non me ne può fregar di meno. Per lo meno non quando l'argomento è affrontato in maniera ridicola e da ragazzini alle prese col primo spinello come in questo caso. Se prendiamo una storia come “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino” il discorso cambia radicalmente: anche in quel caso la tossicodipendenza è il motore propulsore degli avvenimenti, ma almeno appunto succede qualcosa, c'è un'evoluzione nei personaggi, il discorso è trattato in maniera realistica. O prendiamo “Trainspotting”, che già viaggia più sull'assurdo: anche in quel caso trovo la prima metà di film irritante, per gli stessi motivi di questo, ma poi la musica cambia, il tutto diventa più credibile, i protagonisti si evolvono, le dinamiche tra di loro anche ecc.
E' anche vero che “Paura E Delirio A Las Vegas” si svolge nell'arco di pochi giorni quindi è improbabile che le persone vivano dei gran stravolgimenti, ma qui si torna all'inutilità del film: se non deve succedere niente, tanto vale non cominciare neanche.

Per me questo è un film profondamente antipatico, autoreferenziale, sembra quasi sia stato realizzato per mostrare tutta l'alternatività e la trasgressione intrinseca di regista, attori e compagnia bella. “Facciamo un film su due drogati felici di esserlo così siamo scorretti e cattivi”: peccato che a cercare di sembrare cattivi a tutti i costi si finisca poi per scadere nel ridicolo.

Ultimo appunto: ho provato anche a considerare “Paura e delirio” da un altro punto di vista, tenendo conto del fatto che la storia è ambientata nel 1971, periodo quindi in cui gli hippy sognavano di cambiare il mondo con la loro filosofia libertina e permissiva, in cui ancora non si conoscevano gli effetti devastanti delle nuove sostanze eccetera. Questo giustificherebbe quindi l'approccio così allegrotto di Duke e Gonzo e renderebbe tutto il film meno antipatico: vuole solo mostrarci le avventure di due ragazzi dell'epoca e di quello che avrebbero potuto combinare.
Bene, il film non è più odioso e trasgressive-wannabe, ma un problema rimane: annoia comunque.
Alla fine appare persino una riflessione interessante, ovvero Duke viene preso da una certa amarezza nel rendersi conto che in effetti i giovani dell'epoca non sono riusciti a migliorare poi molte cose, solo che 3 minuti convincenti dopo un'ora e mezza di nulla non sono abbastanza.